martedì 1 settembre 2009

Mozione Ru 486

CONSIGLIO DELLA PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO



Gruppo Consiliare Il Popolo della Libertà

Trento, 31/7/2009



Al Presidente del Consiglio Provinciale

Giovanni Kessler

SEDE


Proposta di mozione

”R.U.486: urge fare chiarezza sulle sue conseguenze ed intanto sospenderne con urgenza l’utilizzo”

E così, l’Agenzia Italiana del Farmaco (A.I.F.A.) ha autorizzato la commercializzazione in Italia della R.U. 486, la pillola abortiva. La notizia era nell’aria da qualche giorno, ma sino all’ultimo si sperava in un ripensamento, che purtroppo non c’è stato. A questo punto, assume ancora maggiore rilevanza l’iniziativa dello scorso 19 giugno ad opera del Ministero del Welfare italiano, concretizzatasi nella stesura di un dossier sulla R.U.486, fatto recapitare all’A.I.F.A., iniziativa che le istituzioni regionali e provinciali non possono ignorare.

Infatti l’azienda produttrice del farmaco, la francese Exelgyn, a dispetto della cifra ufficiale, ferma a 16 decessi, ha comunicato all’A.I.F.A., che le morti per R.U.486 sono in realtà 29.

Essa, come è noto, è in fase di uso e sperimentazione anche in Trentino.

La morte è peraltro solo la più grave di tutta una serie di conseguenze imputabili all’uso della R.U.486.

Infatti, come denunciarono già nel lontano 1991 Janice G. Raymond, Renate Klein e Lynette J. Dumble, tre femministe dichiaratamente abortiste, la RU486 – sorvolando sul fatto che si tratta comunque di una pillola che sopprime il nascituro – implica pesantissime ripercussioni sulla salute delle donne, così riassumibili: dolore o crampi nel 93,2% dei casi, nausea nel 66,6%, debolezza nel 54,7%, cefalea nel 46,2%, vertigini nel 44,2% e perdite di sangue prolungate fino a richiedere una trasfusione nello 0,16% dei casi.

Donna Harrison, ricercatrice e ginecologa di Berrien Center, in Michigan, insieme ad una collega, ha pubblicato su The Annals of Pharmacotherapy uno studio nel quale ha identificato ben 637 casi di effetti collaterali nell’uso della R.U.486.

Negli Stati Uniti, la Food and Drug Administration, dopo aver rappresentato più volte l’intendimento di ritirare la R.U.486 dal commercio, in seguito alla morte di una ragazza di diciassette anni che vi aveva fatto ricorso, ha contrassegnato la pillola con una banda nera, quella che viene riservata ai farmaci pericolosi per la vita.

La pericolosità di detta pillola è stata riscontrata persino in un Paese come la Cina, notoriamente non rispettoso dei diritti umani. Nell’ottobre 2001 è stata disposta un’inversione di rotta rispetto all’iniziale liberalizzazione, inversione di rotta consistente nel divieto di venderla in farmacia e di assumerla solamente in ospedali selezionati e sotto stretto controllo medico.

Addirittura, nel dicembre 2005, un editoriale del New England Journal of Medicine, “bibbia” mondiale della scienza, denunciava una percentuale di mortalità con il metodo chimico, quello della R.U.486, ben 10 volte più alta di quella rilevata con il metodo chirurgico.

Persino Severino Antinori, indiscusso guru della fecondazione, ha pubblicamente ammesso che la R.U.486 “provoca dolori, emorragie, infezioni, malattie. Con esiti mortali”.

Dinnanzi a simili constatazioni non si può non riconoscere come la R.U.486 rappresenti un vero e proprio pericolo.

Per cercare di smentirlo, non più tardi di qualche mese fa qualche organo di informazione locale divulgò servizi nei quali si attestavano, per il Trentino, centinaia di sperimentazioni andate a buon fine, senza alcuna delle gravi ripercussioni che la R.U.486 spesso implica. In realtà, non vennero resi noti nei dettagli l’entità e il grado di rappresentatività di questo campione.

In un documento elaborato dalla Società Medico Scientifica Interdisciplinare Promed Galileo e sottoscritto anche dall’European Medical Association, si denuncia proprio “la bassa qualità degli studi, spesso caratterizzati per l’assenza di randomizzazione e la contraddittorietà dei risultati, che rendono difficoltosa l’interpretazione dell’accettabilità del metodo”.

D’altro lato, c’è chi ritiene – trascurando i dati della letteratura scientifica – che il ricorso all’aborto chimico rappresenti un progresso e si appella alla sua diffusione in Europa per invocarne l’adozione in Italia.

Dal canto suo, il Sottosegretario al Welfare, on.le Roccella, sottolinea come la pillola R.U.486 rappresenti un metodo che “intrinsecamente porta la donna ad abortire a domicilio proprio perché il momento dell’espulsione non è prevedibile, in una sorta di clandestinità legale”.

Aspetto di non secondaria rilevanza concerne, poi, il fatto che il ricorso alla R.U.486, come ha evidenziato pure la Roccella, determini violazione della legge 194/78 sull’interruzione volontaria della gravidanza. Essa infatti, all’art. 8, sancisce espressamente la necessità che l’aborto procurato si consumi all’interno di strutture pubbliche, mentre una donna che assume la pillola abortiva – che produce i propri effetti, culminanti con l’espulsione del feto, entro un arco di tempo che talvolta giunge a due settimane – non viene trattenuta in ospedale fino al momento in cui è certificata l’interruzione di gravidanza, ma vi ritorna solamente dopo, per eseguire dei controlli.

Ciò è in violazione di due pareri del Consiglio superiore di sanità: uno del 2004, alla cui stregua “i rischi connessi all’interruzione farmacologica della gravidanza si possono considerare equivalenti all’interruzione chirurgica solo se l’interruzione di gravidanza avviene in ambito ospedaliero”; l’altro del 2005, per il quale “l’associazione di mifepristone e misoprostolo deve essere somministrata in ospedale pubblico o in altra struttura prevista dalla legge, e la donna deve essere trattenuta fino ad aborto avvenuto”.

Né vanno sottaciuti gli interessi economici che soggiacciono alla diffusione della R.U.486, destinati a foraggiare le aziende produttrici della stessa.

Sarebbe interessante che questi temi così delicati e utili chi difende la R.U.486 lo facesse a viso aperto, argomentando le proprie ragioni, non già trincerandosi dietro a slogan oramai superati.

Anche perché, sul piano culturale, il rischio forte è la privatizzazione dell’aborto: la donna abortirà da sola. Difatti i protocolli contemplano che solo dopo 14 giorni si provvederà ad un controllo.

Ciò premesso il Consiglio della Provincia Autonoma di Trento impegna la Giunta:

  1. a verificare quante donne, in Trentino, hanno fatto ricorso alla R.U.486 a partire dalla sua sperimentazione e della successiva diffusione disposta dall’Azienda Italiana per il Farmaco (A.I.F.A.);
  2. a garantire, nei confronti delle donne che chiedono l’interruzione di gravidanza sia farmacologica che chirurgica, il c.d. consenso informato;
  3. a disporre la sospensione dell’utilizzo della R.U.486 in attesa che si faccia chiarezza sulle controindicazioni della stessa, anche alla stregua dell’esperienza di altri Paesi.


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