Trento, 8 novembre 2006
Essendo purtroppo impedito, a causa di un infortunio, a partecipare all’incontro con Don Carron sul “rischio educativo” di don Giussani, sento di esprimere il mio parere su quell’opera, che ho trovato assai preziosa.
Pur non facendo parte di C.L., movimento per il quale nutro stima e rispetto, mi permetto di consigliare a chiunque la lettura di quel saggio, che considero un apporto assai valido nella fatica educativa.
I nostri ragazzi infatti appaiono spesso incapaci di fare un passo in avanti, mancanti, come spesso sono, dell’energia e delle ragioni per muoversi verso il proprio futuro ed il proprio destino. E sì che ciascuno di loro viene al mondo con il desiderio di sapere le cose che bisogna sapere. Che non sono primariamente quelle relative all’istruzione o quant’altro, ma prima di tutto quelle concernenti una scelta di campo, un significato delle cose, un senso nella vita.
Cosa trovano però questi nostri ragazzi? Trovano una mentalità debordante, che occupa tutto o quasi. E la assimilano quasi ad ogni ora del giorno. Essa ha come fondamento e criterio quel relativismo spesso sottolineato anche da Benedetto XVI, che ha parlato di “dittatura del relativismo”.
Con il risultato che si vedono spesso portare via la realtà. Diversamente da loro, le generazioni che li hanno preceduti, per quanto avessero passato anche momenti terribili (guerra, fame, violenza), non si erano mai viste mancare la certezza di una generazione di poter trasmettere un patrimonio di valori. Valori non tanto nel senso dell’ossequio alle regole, ma nel senso di un vissuto. L’educazione è, infatti, annota acutamente Giussani, una testimonianza. E così, oggi i ragazzi sembrano spesso chiederti, talvolta anche solo con lo sguardo, di assicurare loro che valeva la pena venire al mondo. Essi guardano noi, il mondo degli adulti e da noi si aspettano una risposta persuasiva.
Ma, chiediamoci, che tipo di adulti e che tipo di sicurezza incontrano? E’ a questa domanda che dobbiamo rispondere. Una domanda che c’è nella struttura e nella natura dell’uomo, perché tutti educhiamo: indipendentemente dal lavoro che si fa, dai figli che si hanno o non si hanno…, per come andiamo a fare la spesa, per come salutiamo, per come mangiamo…, tutto dell’uomo educa, perché può dare testimonianza di un significato e di una gioia oppure di una disperazione e di uno scetticismo. E i nostri figli ci guardano, sempre, fin dal grembo materno.
Se è così, allora la questione educativa è veramente “il problema” dell’adulto. Dobbiamo chiederci che testimonianza diamo di noi stessi e soprattutto pensare che, se può essere importante insistere sui valori, è ancora più decisivo dare le ragioni di questi valori. E dare le ragioni che peschino nei cuori dei ragazzi, cioè nel loro desiderio di felicità.
In questo senso, l’altra grande parola del “rischio educativo” di Giussani, è la parola proposta (di vita). Essa si identifica con l’atteggiamento educativo solamente se è accompagnata dalla misericordia.
L’educazione inizi con un atto di misericordia, annota Giussani. Misericordia vuol dire quella cosa che fa solo Dio (o uomini vicini a Lui) e che è consistita nel fatto di amarci nonostante i nostri peccati. Amarci fino al punto di mandarci Suo Figlio Gesù. Non c’è altra ragione per cui Gesù sia venuto sulla terra che non sia l’educazione, cioè la compagnia che uno più grande, che conosce il cuore dell’uomo, fa all’uomo stesso perché raggiunga il suo destino.
La misericordia nell’educazione significa amare uno prima che diventi come tu vuoi. L’educazione comincia quando il figlio si sente amato così com’è. Tant’è vero che mettiamo al mondo i figli gratuitamente, senza sapere se saranno maschio o femmina, buoni o cattivi, cioè in un rischio totale. Li amiamo prima che esistano. Un po’ di quello che fa totalmente Dio con noi.
Tutto il percorso del “rischio educativo” sta, mi pare, proprio nel rischio della libertà amata fino a correre il pericolo dello strappo finale, cioè del figlio che dice “no”.
Il punto forse più geniale dell’impostazione di Giussani sta nel suggerimento dato al genitore (che impersona un po’ tutti noi) il quale si sente dire “no” dal figlio. Il suggerimento è quello che viene chiamato con un’espressione meravigliosa, “funzione di coerenza dell’adulto”.
L’adulto, cioè, è quello che “tiene”, quello a cui il figlio, soprattutto ad una certa età, guarda. Il figlio ha bisogno di sapere che il genitore tiene, perché altrimenti per lui è finita, viene giù il mondo. Si chiama “funzione di coerenza”. E appare ridicolo l’adulto che pensa di vendersi come perfetto.
E’ la coerenza ideale di cui hanno bisogno i nostri figli. Ci perdonano tutto, più di quanto noi perdoniamo loro, ma non ci perdoneranno una incoerenza ideale, cioè una non tenuta sul fondamento. Ci chiedono cioè di essere una casa fondata sulla roccia. Questo permette loro di sbagliare, perché sanno che potranno “tornare”. Questa è, a mio avviso, la grandezza del “rischio educativo”, cioè un amore alla libertà del figlio così grande, da permettergli di sbagliare, perché io, tuo padre (o tua madre) sono qui e in qualsiasi momento ti riprendo, perché tu sei mio figlio. E’ la fedeltà di Dio quella a cui é invitato l’adulto nel “rischio educativo”.
Se ci sono adulti che ricominciano a fare così, è inutile ogni piagnisteo e si può davvero educare. E insieme si possono costruire grandi cose.
Cons. Pino Morandini
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