Trento, 19 giugno 2006
“VOTO “SI’” PER FAR PROSEGUIRE DAVVERO LE RIFORME”
Al fine di orientarsi in vista del referendum del prossimo 25 giugno, ritengo si debba riflettere sia in ordine ai contenuti delle norme su cui ci si esprime sia sugli scenari che discenderebbero da una vittoria del “si” o da una vittoria del “no”.
Quanto ai contenuti, va subito detto che, anche se si poteva fare meglio, sono positivi ed il fine della riforma 2005 lo è con loro. Essi infatti esprimono una reale volontà di rivedere la forma di governo – cioè il rapporto fra gli organi costituzionali dello Stato – che, salvo limitate innovazioni, vige in Italia da 60 anni. Viene primariamente esteso nella sostanza al Parlamento italiano lo stesso sistema che l’art. 122 della Costituzione prevede per Regioni, Province e Comuni. Addirittura, nella riforma costituzionale del 2001, l’allora governo di centro sinistra aveva affermato che, se le Regioni o le Province Autonome non avessero disciplinato il proprio sistema elettorale, si sarebbe applicato anche per loro il sistema elettorale approvato a livello nazionale. Alla faccia dell’autonomia!
L’attuale riforma, nel nome del principio “aut simul stabunt, aut simul cadent” prevede, così come per gli enti territoriali succitati, che anche il Parlamento nazionale sia eletto nel cono d’ombra del capo del Governo: se questi muore o si dimette, si sciolgono le Camere, a meno che non sia approvata una mozione di sfiducia costruttiva, che porta l’immediata sostituzione del premier. Vari costituzionalisti si sono espressi diversamente su ciò: taluno definendo forte un premier risultante da siffatto ordinamento, altri ravvisandone un’intrinseca debolezza, in quanto, qualora la metà più uno dei deputati si dimettesse, egli verrebbe sfiduciato automaticamente.
Un ulteriore effetto della riforma è quello della diminuzione del numero dei deputati e dei senatori. E’ questo un dato particolarmente positivo, che induce sia un notevole risparmio di soldi pubblici sia uno snellimento della macchina burocratica parlamentare.
E’ inoltre introdotto il principio dell’”intesa”, per il quale non sarà più possibile allo Stato modificare gli statuti delle Regioni o delle Province autonome, se non previa intesa con la Regione o la Provincia interessata.
Più delicata appare invece la reintroduzione del c.d. interesse nazionale, che potrebbe essere foriero di limitazioni all’autonomia. Anche se, ad onor del vero, già la nuova formulazione dell’art. 117 della Costituzione, introdotta nella citata riforma del 2001, aveva lasciato allo Stato ampie possibilità di erosione delle competenze delle Regioni e delle Province autonome. Si pensi alla lettera m) di quell’articolo, introduttiva dei livelli essenziali di assistenza; ma pure ad altre previsioni della stessa norma.
Quanto agli scenari nel caso di vittoria dei “sì”, va subito evidenziato il graduale realizzarsi della riforma, che entrerebbe in vigore nel 2011. Quella vittoria aprirebbe spazi di reale trattativa tra centrosinistra e centrodestra, i soli capaci di aprire lo spazio per una riforma costituzionale invano inseguita per un quarto di secolo. Riforma che avrebbe, quali elementi salienti, innanzitutto, la fine del c.d. bicameralismo perfetto, cioè di due Camere con eguali poteri, causa di tante inefficienze.
In secondo luogo, una forte riduzione del numero dei parlamentari (più di 200).
In terzo luogo, un premier forte, come si conviene a chi è responsabile, anche verso l’estero del governo e dell’immagine della nazione. In quarto luogo, l’“intesa” fra Stato e Regione o Province, quale condizione indispensabile perché a Roma possano modificare il nostro Statuto.
Basterebbe quest’ultimo punto per sostenere questa riforma, al fine di tutelare l’autonomia.
Se, invece, prevalessero i “no”, la Costituzione resterebbe con ogni probabilità immutata per decenni. Infatti, nel mentre condivido alcune affermazioni di costituzionalisti per il “no”, come Ceccanti e Barbera, allorquando evidenziano i gravi difetti della vigente Costituzione, non mi ritrovo sulle loro conclusioni. A loro dire infatti, la vittoria dei “no” attiverebbe a breve la ripresa della riforma costituzionale. Ciò è, a mio avviso, infondato per almeno quattro motivi.
Primariamente, per la presenza nell’attuale maggioranza di governo di parecchi gruppi fortemente contrari a vari passaggi della riforma (premierato forte, ecc.), che farebbero valere il proprio ruolo per la stabilità di governo al fine di bloccare la riforma stessa.
Rileva poi, quale secondo motivo, la consistente presenza di un’area di conservatori ad oltranza della Costituzione, alcuni dei quali, per difenderla, hanno perfino visto nel premierato forte il tradimento dei valori della resistenza!
Decisivo appare poi un terzo motivo: quello per il quale, se vincessero i “no”, non sarebbe di fatto più possibile ridurre il numero dei parlamentari, in quanto molti degli attuali lo impedirebbero. Analogamente, verrebbe annullata la possibilità di togliere al Senato il potere di conferire la fiducia al Governo.
Emerge infine, quale dato essenziale per la tutela della nostra autonomia, l’importanza strategica dell’”intesa”, che la vittoria dei “no” cancellerebbe inesorabilmente. Lo strumento dell’”intesa” si rivela particolarmente prezioso per arginare certi rigurgiti di strapotere statuale del tipo di quelli emersi nel 2001, quando il Governo nazionale di centro-sinistra ci impose la modifica dello Statuto. E non a caso, tra i conservatori ad oltranza, compare pressoché tutta la sinistra massimalista.
Conclusivamente, ritengo che, anche se la riforma in questione non è perfetta (ma quale riforma lo è?), il “sì” rappresenta l’unico modo per indurre un reale cambiamento e far proseguire le riforme necessarie.
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