Trento, 23 gennaio 2007
Partito con l’invio, da parte di Welby, di una lettera al Presidente Napolitano, in cui gli chiedeva la concessione della “morte dolce” – immediatamente ripresa dal Capo dello Stato con l’invito alle Camere a discutere di testamento biologico, diversamente da altre richieste allo stesso Presidente formulate (così come ha fatto una signora veronese il cui marito giace da due anni in stato vegetativo) e dirette a domandare, in circostanze analoghe o identiche a quella di Welby, condizioni più favorevoli per un’assistenza premurosa alle persone in stato vegetativo o terminale, richieste che hanno ricevuto una risposta semplicemente formale – il dibattito sulla vicenda ha mescolato insieme sentimenti e temi diversi, con l’evidente intento di alterare l’orientamento, che in Italia è istintivamente ostile all’eutanasia.
Chiarezza e pietà penso siano i sentimenti con cui affrontare un caso umano come quello di Welby: la massima pietà (che evoca l’antica e sempre attuale “pietas”, valore umano e così prezioso che è ben lontano dall’effimera emotività), di fronte ad una vicenda particolarmente straziante; epperò anche la chiarezza, che esige discernimento ed onestà intellettuale.
In proposito, va preliminarmente osservato come sia stato strumentalizzato un caso drammatico e pietoso, sia pure con il consenso del paziente, per trasmettere alla pubblica opinione un falso messaggio: che la morte è l’unica risposta possibile a malattie degenerative terribilmente invalidanti. Invero, il messaggio autentico è l’opposto: la vera risposta a tutte le situazioni tragiche di malattie croniche invalidanti e di malattie in fin di vita, non sta nell’abbandono terapeutico, ma nella vicinanza calda e compassionevole. Che, fra l’altro, è pure un diritto, rientrante nel più generale diritto alla salute.
Sono poi state messe in atto alcune pericolose alterazioni:
1. si è voluto definire “accanimento terapeutico” l’uso di macchine per la respirazione forzata cui Welby doveva la sua sopravvivenza. Che di accanimento terapeutico non si trattasse, ma solo di una forma benefica ed estrema di terapia, lo ha autorevolmente dichiarato il Consiglio Superiore di Sanità. Perché ci sia accanimento terapeutico deve realizzarsi una sproporzione fra il trattamento cui il malato è sottoposto e la finalità che il medico intende perseguire con il trattamento in questione: nel caso di Welby, il respiratore meccanico aveva la funzione di assicurargli una sopravvivenza autenticamente e profondamente umana, non una mera sopravvivenza biologica;
2. si sono confuse le c.d. cure palliative – così capaci di dare ad ogni paziente la concreta speranza di poter convivere in modo dignitoso con la propria malattia – con pratiche di sedazione robusta ed irreversibile, finalizzate a sopprimere il malato più che a non farlo soffrire;
3. si sono lamentate lacune nell’ordinamento giuridico italiano, mentre il nostro sistema penale è sul punto davvero completo e fonda le proprie norme (fra cui quelle sanzionanti l’omicidio del consenziente, l’istigazione e l’aiuto al suicidio) sul principio laico dell’indisponibilità della vita umana, con la conseguente chiara scelta della contrarietà ad ogni forma di eutanasia;
4. si è invocato il principio di autodeterminazione del paziente, quasi che questo legittimasse una sorta di pretesa del malato verso il medico, perfino la pretesa di eutanasia; quando è risaputo che in bioetica quel principio riveste un significato più ristretto: quello del dovere del medico di ottenere, prima di mettere in atto qualsiasi iniziativa medica, il consenso informato del paziente;
5. si è addotto l’articolo 32 Costituzione (“Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”) per legittimare un diritto di Welby ad un rifiuto delle cure. A parte il fatto che la ragione di quel fondamentale principio costituzionale sta nell’intento di mettere un limite al c.d. “paternalismo terapeutico” (cui si tende spesso negli ordinamenti in cui la sanità riveste un valore pubblico ed è gestita in modo burocratico), di certo quella norma non è stata pensata dai padri della Costituzione come una via breve per l’eutanasia.
Dal punto di vista giuridico, Welby aveva il diritto di rifiutare l’uso nei suoi confronti del respiratore meccanico, naturalmente dopo essere stato dettagliatamente informato circa le conseguenze delle sue decisioni. Dal punto di vista etico, peraltro, il medico può accogliere quella richiesta solo nel caso in cui per il paziente emerga una situazione di insopportabilità in prossimità della morte o in analoghe situazioni, come prevede la “Dichiarazione sull’eutanasia” (5,5;80).
Nella vicenda di Welby non si è realizzata l’anzidetta fattispecie; si è invece prospettato un c.d. “diritto a morire”. Ma se c’è un simile “diritto”, vi deve corrispondere il “dovere” di dare la morte: dovere che non è dato di imporre a nessuno, non solo per il principio di indisponibilità della vita umana, ma pure perché , a partire dai tempi di Ippocrate fino ai moderni Codici deontologici, il dovere del medico è quello di curare e promuovere la vita. “Diritto di morire” che non è stato accettato neppure dalla laica Corte dei Diritti dell’uomo di Strasburgo, con la decisione 29/04/2005 nella causa Diane Pretty contro Regno Unito.
Pino Morandini
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