venerdì 16 maggio 2008

Welby, il dolore, l'eutanasia...

26 settembre 2006

La vicenda umana di Piergiorgio Welby è sicuramente una di quelle che ci lascia senza parole: di fronte al dolore, ad un dolore così grande, rimaniamo attoniti. L'unica cosa che si potrebbe fare, forse, sarebbe quella di stargli accanto, con amorevolezza e calore umano. Condividere, con lui, per quanto possibile, una tristezza che non deve caricarsi anche del peso della solitudine. Ma bisogna anche notare una cosa: come api sul miele, i radicali si sono tuffati sulla vicenda per introdurre l'idea che la risoluzione del problema, a questo, a tutti i dolori, sia l'eutanasia. E' una tattica vecchia, che si ripete periodicamente: prendere il caso estremo, il più pietoso possibile, da usare come grimaldello per scardinare un principio. Non importa che, così facendo, si finisca per confondere ad esempio l'eutanasia con il rifiuto dell'accanimento terapeutico; non importa che si mettano in questo modo tutti i dolori, le malattie e le solitudini sullo stesso piano, senza differenza di gradazioni e condizioni. In tal modo è forte il rischio che una campagna mediatica potrebbe portare l’opinione pubblica a scegliere sulla base di casi estremi, straordinari e patetici.

No, il caso di Welby è sicuramente da discutere: occorre capire, riflettere su quali siano i limiti delle cure, dove si possa arrivare, con l'arte medica, per tenere in vita un malato, e dove invece le cure mediche divengano inutile e sproporzionato prolungamento di una vita che altrimenti finirebbe. Questa è la discussione da fare, senza assolutamente mettere in dubbio un principio: quello del rispetto della vita, in questo caso quella alimentare dei malati, degli anziani, di coloro che sono bisognosi di cura.

Altrimenti il rischio è quello di una società che giunge poco a poco a liberarsi delle persone, quando non producono più, quando rimangono sole, quando sono depresse ecc… Non per nulla i radicali sono favorevoli anche all'eutanasia per i giovani, per chiunque la richieda. Secondo loro, se una persona decide di finirla, anche e solo, magari, per una crisi di depressione, lo Stato deve intervenire, aiutandola a morire, configurandosi sostanzialmente come un boia ufficiale. Non è questo il compito dello Stato né il compito della società né la funzione della legge. Semmai, allo Stato e alla società, è richiesto di intervenire per aiutare i deboli, qualsiasi sia il tipo di debolezza in questione. Carità, solidarietà, amore fraterno, comunione… Queste sono le vie d'uscita per il dolore, la solitudine, la depressione, e non altre… Dobbiamo dirlo ad alta voce, proporre e testimoniare i valori, la vita, diffondere la cultura della carità, e non quella della morte.

In altre nazioni, invece, si stanno diffondendo pericolose derive: medici che decidono di dare la morte, la cosiddetta eutanasia; anziani che vorrebbero vivere, ma che occupano "troppi" letti d'ospedale. Sappiamo del dottor Kevorkian, che uccideva anche per rivendere gli organi dei suoi pazienti; sappiamo di pazzi psicotici, come il medico inglese Shipman, responsabile del decesso di duecentotrentasei persone che volevano vivere, e di cui lui aveva decretato la morte…Sappiamo di quello che succede in Olanda, o nell'Oregon, in America, dove, come cantava De Andrè, "quando si muore si muore soli". Persone in difficoltà, magari anche per motivi risolvibili, vivendo in società individualistiche, richiedono l'eutanasia, solo perché non hanno altra alternativa, perché nessuno si occupa di loro, perché il volontariato e lo stato latitano del tutto… Il medico, allora, dopo una ed una sola visita, decide di accontentarli: non c'è tempo di accudire le persone, di ascoltarle, di capire i loro bisogni, di aiutarle in un momento difficile, magari passeggero… Basta una chiamata e il medico diventa dispensatore di morte, anziché di vita, senza neppure sapere, in fondo, se il malato non avesse avuto invece bisogno di una semplice cura, di un aiuto, di un rimedio medico o umano contro una forma di depressione o affini… Non sono forse l’eutanasia e la cultura che l’accompagna un modo per “consacrare” la società individualistica, egoistica e spesso menefreghista che si sta profilando?

Allora non è corretto né umano strumentalizzare casi dolorosi per chissà quali fini. E nel contempo, se si ritiene di avviare una discussione pubblica su temi così delicati, prima di parlarne nelle sedi istituzionali, sarebbe forse bene coinvolgere la società civile.

Pino Morandini
Cons. provinciale U.D.C.

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