venerdì 16 maggio 2008

Sui P.A.C.S.

Trento, 8 marzo 2006

Sui PACS

Colgo l’occasione della recentissima apertura, da parte del Comune, del registro delle coppie di fatto per contribuire ad un dibattito che quell’apertura è destinata a rinfocolare.

In una società democratica, infatti, la battaglia delle idee è sempre benvenuta, perché il dibattito e il confronto ne rappresentano l’essenza preziosa. Purché di reale confronto si tratti. Quando invece al posto delle idee fioccano slogan ed in luogo del ragionamento lucido e pacato arrivano cortei e invettive, allora la democrazia stessa “scompare”. E’ quanto è avvenuto sinora sui PACS, per il cui riconoscimento legale non pare a tuttoggi essere stato formulato alcun argomento consistente. Un ragionamento assolutamente laico e razionale, che cercherò di sviluppare, mi sembra confermare ciò.

All’interno delle c.d. coppie di fatto vi sono coloro che non vogliono e coloro che non possono sposarsi. Delle prime, è doveroso che il diritto non si occupi. Se infatti la loro intenzione è proprio quella di non legarsi giuridicamente, perché mai la legge dovrebbe far loro la “violenza” di considerarle comunque legate, sia pure attraverso un labile PACS, contro la loro volontà? Oppure perché si dovrebbe offrire a costoro una possibilità confliggente con la scelta di libertà da essi perseguita? Si potrebbe obiettare che proprio con i PACS vorrebbero usufruire di alcuni diritti che attualmente sono riconosciuti solo alle coppie sposate. Se è così, pare davvero indebita l’intenzione di coloro che pretendono un riconoscimento pubblico della loro convivenza per ottenere diritti senza doveri. Peraltro, quei diritti possono attivarsi anche con il diritto volontario (es. il testamento; la locazione dell’alloggio di comune convivenza può essere stipulata congiuntamente dai due partner in modo tale che, al momento della morte dell’uno, essa possa proseguire a carico dell’altro). Per cui non è vero che ai conviventi vengano negati diritti civili.

Le coppie che invece non possono sposarsi, si trovano impedite o per transitorie difficoltà giuridiche (es. la minore età, ecc.) – per esse l’offerta dei PACS è senza senso, in quanto avrebbero le stesse difficoltà anche con i PACS – o per difficoltà economiche. Il modo concreto per venire incontro ai bisogni sociali di queste coppie è rimuovere i tanti ostacoli che gravano sulla famiglia, che la Costituzione riconosce e afferma di voler tutelare. Ostacoli che in molte situazioni rendono arduo arrivare al matrimonio e viverlo con serenità.

La stessa Corte Costituzionale, con giurisprudenza costante, ha affermato la non assimilabilità, nemmeno attraverso l’analogia, del rapporto di mera convivenza con quello coniugale. E per giustificare tale condivisibile orientamento, basti pensare a taluni obblighi che sorgono in capo ai coniugi, la cui violazione configura un illecito penale (dunque di diritto pubblico!) omissivo. Solo questo esempio basta per dare un’idea della non assimilabilità del rapporto di coniugio ad un mero stato di fatto, a meno che non si vogliano sovvertire i principi di libertà e legalità dell’orientamento giuridico. E cosa dire delle iscrizioni, numericamente scarse, ai pubblici registri istituiti per le coppie conviventi da alcuni Comuni, a parte l’irrilevanza giuridica dei registri stessi?

Resta peraltro inteso e doveroso che i figli delle unioni di fatto non debbono essere penalizzati di fronte a politiche per la prole.

Cosa resta dunque delle istanze sociali che giustificherebbero l’introduzione dei PACS? Sembra nulla. A meno che la richiesta di detta introduzione non nasconda un’istanza profondamente diversa: quella di una prima forma di riconoscimento legale delle coppie omosessuali, che dovrebbe aprire la strada ad una compiuta equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio, così come chiedono espressamente i loro movimenti.

Perché allora non si dichiara apertamente, da parte dei sostenitori dei PACS, quel reale intento? Forse perché nessuno è in grado di fornire argomenti consistenti per dimostrare la necessità di alterare in modo così profondo quell’impianto eterosessuale del matrimonio, che è proprio di tutta la storia e di tutte le culture?

Le coppie omosessuali aspirano ad un riconoscimento simbolico del loro rapporto. Epperò il diritto non ha la funzione di formulare riconoscimenti simbolici, ma di offrire risposte pubbliche ad esigenze sociali che superano la dimensione privata della vita. Così, per esempio, il diritto conferisce un riconoscimento pubblico al matrimonio – e non all’amicizia perché questa, pur rappresentando talvolta un vincolo esistenzialmente più significativo di quello coniugale, non ha però rilievo sociale, ma esclusivamente personale – perché il matrimonio, fondando la famiglia ed assicurando l’ordine delle generazioni, ha una rilevanza sociale del tutto peculiare, che giustifica l’“attenzione” del diritto stesso.

La coppia omosessuale non crea famiglia, a causa della sua costitutiva sterilità. Per superare questa difficoltà, si punta all’equiparazione di essa alla coppia eterosessuale, con la pretesa di ammettere le coppie omosessuali (a partire da quelle “sposate” ) all’adozione.

Non conta nulla che la psicologia dell’età evolutiva sottolinei come rilevante il bisogno per i bambini di possedere una doppia figura genitoriale, maschile e femminile? E’ irrilevante che numerose famiglie attendano concrete politiche per loro, che oggi sono urgentissime?

Si è aperta una partita decisiva, che ha per oggetto la famiglia e, attraverso di essa, la stessa identità umana. Per promuovere la famiglia non servono argomenti teologici o religiosi, peraltro formidabili. Bastano ragioni umane, perché ciò che la famiglia tutela e promuove è innanzitutto il bene umano. Chi ritiene di mettere in discussione tutto questo, ha l’onere di provare fino in fondo, in un dialogo serrato, le sue tesi eversive e di rinunciare alle scorciatoie delle provocazioni e delle manifestazioni di piazza.

Pino Morandini

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